RE-COMMERCE: IL SECOND HAND SENZA VERGOGNA

testo di Fabrizio Tomei; foto Foto di cottonbro

Una delle missioni di PMC è quella di guidare le aziende nel trovare un cammino sicuro per il proprio business e non ci sono vie di mezzo: per guidare attraverso un sentiero devi conoscere il bosco, ovvero osservare come cambia il mondo e analizzarlo. Uno dei cambiamenti in atto di particolare rilevanza per il suo connubio tra business, comportamento sociale ed etica oggi, è quello del second hand.

Sono lontani i tempi in cui ammettere di vestire un capo usato era motivo di vergogna, legato inesorabilmente a mancanza di denaro. Oggi il second hand non solo è di moda, ma addirittura quotato in borsa. Per capire la portata di questa tendenza, basti pensare che a gettarsi nella mischia dell’e-shop di seconda mano del lusso ci si sono buttati anche brand come Gucci, Burberry e Stella McCartney.

Una significativa parte di motivazioni per questa discesa in campo dell’alta moda è la difesa del proprio brand: collaborando con le piattaforme giuste possono infatti controllare che i loro prodotti vengano venduti al giusto prezzo, con le giuste immagini e in un contesto che non vada a sminuire il valore distintivo estrinseco di un bene di lusso: scarsità ed esclusività. Cosa che invece stava succedendo proprio grazie ad altre piattaforme generaliste come ebay e marketplace dove inondazioni di prodotti venivano esposte con immagini non proprio accattivanti, spesso in pessimo stato e con prezzi irrisori. Senza contare il problema dei capi contraffatti che però sono praticamente indistinguibili da quelli originali anche talvolta a fronte di esami ravvicinati. Tutte cose che contribuiscono alla cattiva reputation di un brand.

Ma non è soltanto un fenomeno virtuale. Avrete notato anche voi il diffondersi di negozi fisici nel centro delle città che gridano con orgoglio che vendono sì vestiti e accessori usati, ma di alta moda.

E non sono più quei luoghi tristi, spesso con le vetrine oscurate perché non dovevi vedere cosa c’era dentro (né chi ci entrava), ma delle vere e proprie boutique che nulla hanno da invidiare alle sorelle maggiori.

Il vantaggio è chiaro, e riflette la stessa dinamica di chi cambia iPhone ogni anno. Chi può permettersi questo tipo di spese lascia dietro di sé beni di consumo che hanno ancora enorme valore e che non sono ancora intaccate dai segni dell’usura.

Perché allora comprarli nuovi se con una cifra inferiore possiamo averli praticamente della stessa qualità?

Le statistiche di mercato prevedevano che i 25 miliardi di dollari 2018 al 2021 sarebbero aumentati del 12% annuo arrivando così a una media di 36 miliardi. Poi certo, il settore per ovvi motivi ha visto uno dei cali più significativi a causa dello spauracchio dei nostri tempi, il covid -19, arrivando anche a una discesa del -21%. Quello che non ci si aspettava era che comunque, persino ai tempi del primo lockdown lo stesso settore spostato sull’online non avrebbe perso così tanto, a sostegno della tesi che le leve psicologiche che spingono il consumatore all’acquisto sono diverse a seconda della piattaforma perfino sullo stesso prodotto o servizio.

C’è un’altra concausa fondamentale però, ed è l’economia circolare. Non è più una novità per nessuno infatti che il consumatore moderno sia attento a temi come l’ambiente e la sostenibilità, e il fatto che la moda abbia sposato questi temi proprio in zona pandemia (con la conversione delle proprie factory in produzione di mascherine e/o abbigliamento per il personale sanitario) non ha fatto altro che accelerare un processo già in corso sposando, in più, i vari brand del luxury con i temi ambientali.

Del resto è facile immaginarsi la conseguente formazione di pensiero: “se devo comprare un vestito usato, meglio prenderlo di alta moda o da un anonimo outlet considerando che a prezzo pieno non potrei permettermelo?

Il resto è storia.